“Quando apri la mente, liberi la tua vita.
Quando liberi i tuoi occhi, eterno è il premio.”
SOAD
Con enorme piacere condivido questo scritto di Nicola Narduzzi su uno degli itinerari più affascinanti delle Alpi Giulie, la cresta integrale del gruppo del Canin in versione invernale. Complimenti a tutti!
Il tempo è trascorso. Lo sento nell’aria, non più gelata da bruciare i polmoni. Lo avverto nel calore dei raggi del sole ormai alto nel cielo. Lo vedo nelle gemme degli alberi, pronte a sbocciare per donare nuova vita e colore dopo il freddo grigiore invernale. Una fitta di tristezza mi accompagna mentre i lampioni illuminano il parabrezza dell’auto, lanciata nell’alternanza di luce e ombra di un’anonima strada di periferia. Come sabbia tra le dita il tempo è passato finché non mi sono ritrovato di nuovo qui, a casa, con la sensazione di aver perso qualcosa. In queste giornate terse del tardo inverno anche le montagne sembrano tristi così, tese in un’inutile attesa della dama bianca. Eppure forse non è nemmeno questo il vero problema, forse il tempo non è l’unica cosa persa. Con la mente imprigionata in una gabbia di svogliatezza e pigrizia vago senza meta nella città del ritorno. Nel senso di solitudine che solo luci e palazzi possono dare, mi rendo conto che nella gelida ombra dell’ovest ho smarrito anche la sorgente dell’incanto, quella fame che dava sapore e il giusto valore ad ogni cosa. Perso in questa palude un messaggio criptico di Saverio mi risveglia un po’: “Tira fuori lo Steve House che c’è in te…” Mi viene da sorridere, ormai sa che è facile attirare la mia attenzione.
A volte basta davvero poco per essere felici. Un paio di scarponi e bastoncini, le braccia che spingono e le gambe che si muovono, con la neve dura che scricchiola al tuo passaggio. Il mondo ridotto a un piccolo cono di neve illuminato dalla frontale, la sagoma scura di una grande montagna sopra di te e nient’altro. Nessun pensiero, niente a disturbare la perfetta essenzialità del momento. Spengo la frontale e lascio che gli occhi si abituino gradualmente all’oscurità. Pian piano riesco a distinguere l’enorme mole della Baba Grande stagliarsi contro il cielo stellato e la chiara linea del canale da seguire. Pochi minuti dopo mi ribalto armato di zaino e ramponi dentro la botte rossa del bivacco semi sommerso dalla neve, seguito a breve da Stefano e Saverio.
Il fornelletto a gas fornisce del prezioso calore alla nostra piccola dimora, eppure la porta rimane aperta, la notte è troppo bella per non essere ammirata. Avvolto nel sacco a pelo, cercando di trattenere un po’ di caldo, guardo le luci lontane dei paesi giù in valle e la trama delle stelle che ci sovrasta. Avevo bisogno di tutto questo: sapere di essere gli unici uomini nel raggio di chilometri, fuori da tutto, sapere che domani sarà una grande giornata e immagazzinare tutta l’energia potenziale necessaria. Penso a domani, penso ai mesi trascorsi che mai mi sono sembrati così lontani e, finalmente sereno, mi addormento.
I primi raggi del sole nascente che ci accolgono sull’ampio pendio dello Slebe sono la promessa di una giornata limpida. La neve è dura e trasformata, il massimo per salire rapidamente il facile tratto iniziale. Bisogna andare veloci finché la cresta ce lo consente, guadagnare tempo prezioso da spendere nell’affilato tratto che precede il Porton Sotto Canin. Dai pendii resiani del Laska Plagna degli stambecchi ci guardano, probabilmente chiedendosi chi sono questi usurpatori di terreni che non gli competono, prima di impartirci una lezione di sci ripido gettandosi a capofitto lungo la massima pendenza.
Dopo il Cerni Vogu la cresta si assottiglia. Sotto di noi compaiono salti di rocce verticali, sopra i quali la neve si affila a fare da spartiacque. Una prima calata ci porta sul filo di questa lama di coltello. Da che lato conviene scivolare? A sinistra un salto di trecento metri ci separa dai prati resiani, a destra i ripidi pendii dell’altopiano del Canin, più vicini eppure ancora lontani. Saverio li guarda e cerca di sdrammatizzare: “In fondo magari non è un altezza per la quale si può morire.” Magari anche si, però. Istintivamente le dita si serrano attorno al manico della picozza, e la pianto ancora più saldamente nel pendio. Come trapezisti seguiamo la sottile linea che separa il successo dal disastro, la corda a volte legata in vita, ma più spesso lasciata nello zaino. In fondo la “conserva creativa”, come la chiama Saverio, a volte mi sembra più un conforto psicologico che una reale rete di sicurezza contro gli effetti di una scivolata sgradevole. Una seconda calata ci deposita su un ripido pendio di neve non ancora assestata. Quasi strisciando mi porto su una sella lungo il crinale, ormai solo un breve tratto di misto ci separa dal punto più basso della nostra cavalcata. La tensione cala, ormai manca un breve tratto in piano all’inizio della lunga risalita verso il Canin Basso e Saverio sicuro apre la strada sul filo di cresta. Improvvisamente si ferma, la montagna ci gioca un ultimo scherzo a pochi passi dalla fine delle difficoltà: la cresta si assottiglia, la neve scompare mettendo a nudo una liscia schiena di roccia. Saverio prova a fare un passo ma non se la sente e mi cede il posto. Senza troppa convinzione provo anche io, ma lascio subito stare: la corda ricompare dallo zaino e il fastidio è presto evitato.
Intanto le nuvole che gradualmente si sono alzate dal fondovalle ci hanno avvolto. Il calore dei raggi del sole è solo un ricordo e solamente il movimento garantisce protezione dal freddo. Ormai dispersi nella nebbia fitta non possiamo fare altro che salire, lenti, distrutti, verso quella cima che da qualche parte sopra di noi ci aspetta. Nonostante la scarsa visibilità riesco a riconoscere il posto dove ci troviamo: ero già stato qui due anni fa, in una tersa giornata d’autunno con un freddo sole a baciare le cime imbiancate dalla prima neve. Non era questo il pendio dove esce la via resiana? Cazzo quanto manca allora! Cerco di racimolare la concentrazione necessaria per evitare un errore: sotto di noi so esserci l’infinito scivolo definito dagli scialpinisti la “white magic line” del Canin, anche se al momento possiamo solo intuirla.
Guardo il pendio che scompare nella nebbia pochi metri sotto di noi. Come dev’essere scivolare verso il basso nel nulla? Cosa si prova a sparire, semplicemente non esserci più da un momento all’altro? Quanto può essere facile smettere di lottare, solo appoggiarsi al pendio e arrendersi? A un certo punto Saverio si ferma, si accascia sulla picozza. Io faccio lo stesso, ansimando fortemente, mentre mi guarda e chiede: “Manca poco vero?” Vorrei potertelo dire con certezza Sav, davvero vorrei saperlo. “Ormai ci siamo, che quella specie di costa rocciosa che si intravede è la cima” La fine di questa agonia. In questa situazione, con le gambe pesanti e il cuore che sembra esplodere nel petto una piccola bugia ha più valore della verità. Anche se mancasse tanto, ormai non abbiamo scelta. Possiamo solo andare avanti sospesi in questo vuoto grigiore, e prima o poi anche questa montagna avrà una fine. Otto ore, sono solamente otto ore che ci muoviamo! Cosa si prova, Steve? Cosa succede dopo 60 ore di salita sui fianchi di un gigante come il Denali? Cosa hai trovato negli abissi della tua anima che solo la Diretta ceca poteva tirar fuori? Dove hai trovato la forza di andare avanti quando tutto il tuo corpo chiedeva solo di mollare? Il vento inizia a soffiare più intensamente, segno che forse la cima davvero non è lontana. Un passo dopo l’altro andiamo avanti finché non compare un palo di legno, la fine della cresta, il nostro obiettivo. Quassù, sul punto estremo dei nostri sogni, Saverio si butta per terra. Un gesto che vuol dire più di mille parole: vuol dire gioia, liberazione, freddo, sete, rabbia. Poco dopo arriva anche Stefano, ci sorridiamo: sorrisi stanchi e tirati ma carichi di significato. Neanche la promessa infranta dei raggi del sole nascente ha molta importanza ormai. La consapevolezza del viaggio appena percorso è l’unico calore contro il vento gelido che mi fa tremare e impone una sosta breve, prima di affrontare la discesa.
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Quanto manca a Forcella Tedesca? Domanda inutile, stupida. Eppure, non posso esimermi dal porla alla nebbia attorno a me. Avevamo iniziato la discesa fiduciosi di un rientro rapido alla normalità, ma la realtà dei fatti aveva mandato a rotoli i nostri programmi. Pericolosamente in equilibrio su ripidi pendii, coperti da una neve più vicina allo stato liquido che a quello solido, avevamo ancora una volta penzolato da uno spuntone provvidenziale per tirarci fuori dai casini, ma adesso nessuna corda può aiutarci a guadagnare metri in questo infinito traverso. Sprofondando passo dopo passo, con la testa bassa ed in silenzio avanzo sull’ennesimo pendio nevoso. Mutismo e rassegnazione, condito da una buona dose di quel menefreghismo che accompagna gli stadi più avanzati della fatica, sono l’unica soluzione. Non so bene dove sono, e ormai non me ne frega neanche. So che devo andare avanti e il corpo esegue come un automa. Quanto manca? Cento passi o mille ha forse importanza? Guardo le punte dei ramponi, libero la mente e vado avanti. Con le gambe pieni di acido lattico, svuotate di ogni energia, ogni cedimento della neve sotto il mio peso è come una coltellata. Vaffanculo Steve. Vaffanculo a te, e a tutte le tue cazzate sulla consapevolezza. Vaffanculo a te, e alla fatica. La realtà è che fa solo male.
Durante una vaga schiarita sento Stefano e Saverio chiamarmi, mi volto e li vedo indicare la linea di cresta che li sovrasta: forcella Tedesca è sopra di loro, nello sconforto l’avevo superata di una ventina di metri senza accorgermene!
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Le luci di Sella, incassate tra i ripidi pendii che coronano la Raccolana, si fanno sempre più vicine. La neve appena battuta delle piste è ancora morbida e si lascia scalfire facilmente dagli scarponi in una quasi piacevole corsetta verso la fine del viaggio. Sopra di noi le nuvole hanno ceduto il posto alla volta celeste, interrotta dinanzi a noi dalla bastionata del Montasio. Guardando tutto questo, respirando l’aria fredda, sentendo le gambe pesanti andare ancora avanti, lascio scivolare via la gabbia in cui mi ero rinchiuso e finalmente mi sento libero. Nella perfetta bellezza del momento, oltre la fatica e il freddo, oltre la monotonia della quotidianità e le incertezze del futuro trovo il mio punto fisso, assaporo la profondità di quanto vissuto e, finalmente, sento di essere davvero tornato a casa. Forse non avevi tutti i torti, Steve. In fondo proprio queste 12 ore sono il motivo di questa percezione più acuta delle cose, di questa visione d’insieme più nitida. Eppure tutto ciò dura un attimo, e improvviso come è arrivato scompare. “Qualcosa m’hanno detto la sera e la montagna, ma l’ho perduto.” scrisse Jorge Luis Borges.
Alla discesa seguirà un ritorno, e poi un altro ancora, per provare a ritrovare quanto perduto, alla continua ricerca di qualcosa che forse non esiste, se non per un breve istante nella mente di un trapezista in equilibrio precario sulla cresta di una montagna.